Bruno Benouski è socio fondatore di Fedro. Da parecchi anni si occupa di PNL sviluppando attività di trainer e di ricerca e svolgendo l’attività di consulente in parecchie grandi organizzazioni.
Ciao Bruno, come hai conosciuto la PNL e in che modo te ne sei avvicinato?
Ho conosciuto la PNL grazie ad un amico che, seguace di Antony Robbins, inizialmente mi parlava tantissimo di lui; io istintivamente odiavo tutto quello che mi raccontava al riguardo.
Poi un giorno iniziò a parlarmi di ancoraggi e cominciò a spiegarmi questa cosa stranissima che chiamava Metamodello; ci fu una parola chiave che in qualche modo mi stregò: “linguaggio di precisione”. Non so quale corda abbia toccato, ma la cosa mi incuriosiva sempre di più. Mi informò di un seminario informativo. Mi invitò e andai. Era l’89/90. Il trainer era Andrea Castello ed io rimasi folgorato. Così mi sono iscritto immediatamente, alla fine del seminario, al Pratictioner. A distanza di pochissimo partecipai a un Master. Poi, improvvisamente, mi dimenticai di tutto. Sono quelle cose che non sai come spiegarti: è sceso proprio un velo su queste esperienze e per un anno non ci ho più pensato.
Dopo un anno, non so dirti in quale occasione, mi sono ricordato della PNL e mi sono detto “Devo andare a fondo a questa cosa”, così ho ricominciato a studiarla.
Mi sono tuffato completamente nello studio, nella lettura del “gialloni”, come chiamo gli Astrolabio, e poi ho cominciato a guardarmi intorno per cercare dei trainer. A quei tempi in Italia c’era pochissimo, cercai di mettermi in contatto con PNL Meta ma non ci riuscii.
E considerato il fatto che non c’era altro, decisi di andare all’estero e feci il corso di Bandler, che allora durava ancora tre settimane abbondanti, ventiquattro giorni circa.
Vuoi parlarci di questa esperienza?
Certo! E’ stata un’esperienza a sé sulla quale ci sarebbe molto da raccontare. Innanzitutto l’impatto visivo: non lo avevo mai visto, neppure in fotografia, per cui mi aspettavo il classico professore americano, un po’ simile a quello che è Grinder. Invece in aula entra questo signore con una lunga coda di cavallo, truccato, vestito con giacca e gilet leopardato… Un personaggio un po’ sui generis!
Naturalmente estremamente bravo, efficace, fascinoso e carismatico. L’insegnamento era tutto da estrapolare, tutto da ricercare e da ricostruire perché non c’era una didattica: non c’era mai la spiegazione di un modello, non c’era mai un processo identificativo in passi. L’insegnamento consiste nel guardare lui lavorare, estrapolare il modello e modellarlo. In ventiquattro giorni riesci a farlo, per lo meno in parte.
Ci fu un aneddoto che voglio raccontare: un giorno parlando con lui durante un break gli chiesi come mai non avesse continuato ad approfondire il metamodello. E lui rispose perché il metamodello è una c…, o qualcosa del genere.
Disse inoltre che l’unico modello di PNL che lui riconosceva sono le sottomodalità. Per lui la PNL è sottomodalità e modelli ipnotici. Fare chunking down per lui significava andare a scavare nel problema ingigantendolo, fare sprofondare l’altro nel problema. Assolutamente non trovare né risorse, né soluzioni. Rinnegava in pieno il metamodello, ed io ne sono rimasto a dir poco sconcertato.
Era già finito il rapporto con Grinder: un paio di anni dopo, nel ’96 credo, ci fu la prima causa persa in California. Da quel momento il fenomeno certificazioni e tutto il resto è andato fortunatamente scemando.
Due anni dopo sono andato da Dilts. Nello stesso anno Laura Quintarelli, con cui era iniziato il sodalizio professionale, era andata da NLP Comprehensive,in Colorado, per la prima di una serie di estati lavorative presso il loro istituto.
Hai accennato al sodalizio professionale con Laura, quando è nata l’idea di Fedro?
Nel 1995/96 è nata l’idea di Fedro. Lei veniva da altre esperienze, io facevo il formatore e responsabile della formazione in azienda. Avevamo entrambi l’idea forte di fare qualcosa con la PNL. E lo abbiamo fatto avendo ottenuto entrambi le certificazioni di trainer. Abbiamo pensato di approfondire con i trainer storici. Per cui io sono andato in California da Robert Dilts e Judith de Lozier. Abbiamo studiato con Gilligan, Tim Hallbom, una breve apparizione di David Gordon. Nel frattempo Laura lavorava con i coniugi Andreas.
Insomma abbiamo conosciuto un po’ tutti e ci siamo scambiati le esperienze.
Nel frattempo nasceva il progetto di Fedro.
Perché lo avete chiamato proprio Fedro? C’è un qualche significato?
Per una ragione molto precisa. Il nome Fedro è nato prima del progetto stesso. Sia io che Laura veniamo da esperienze aziendali, costruttive, formative, interessantissime, ma ci eravamo scontrati con degli aspetti della qualità in azienda che secondo noi erano carenti. Nelle aziende come le conosciamo ci sono molti aspetti che potrebbero essere modificati, migliorati, che rendono l’azienda un mondo strano che a volte ti mette in difficoltà rispetto ai tuoi valori e al tuo modo di essere. Così un giorno ho iniziato a scrivere una specie di manifesto programmatico, una specie di delirio, in cui affermavo a me stesso la volontà di sviluppare un progetto che partisse dalla qualità personale, che non ne prescindesse mai: qualunque cosa le persone coinvolte nel progetto facessero, avrebbero sempre e comunque ricordato questo impegno verso la qualità personale.
Proprio in quel periodo stavo leggendo “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig. Nel libro c’è questo personaggio, un meta-protagonista che si rivela piano piano e che si chiama appunto Fedro e visto che la qualità è il tema centrale della storia, mi sono detto: “Questo progetto si deve chiamare Fedro, io voglio dare vita ad un Fedro che rappresenti questo alter ego di qualità”.
I contenuti poi sono venuti da sé: lavoravamo con la PNL. Volevamo fare qualcosa che avesse come nucleo centrale la qualità personale, le due cose si sono fuse. Abbiamo pensato di cominciare con un corso di Pratictioner. E siamo partiti.
Tu lavori molto in azienda. In che misura vi utilizzi la PNL?
Non portiamo in azienda l’insegnamento della PNL, ma proponiamo l’applicazione di quei modelli di PNL che in qualche modo possono costituire una soluzione valida.
Siamo sempre partiti dall’analisi delle necessità e dei problemi che si vanno ad affrontare in azienda e dall’utilizzo del modello migliore per risolverli. Per esempio il modello che ho sempre utilizzato, sia in fase di progettazione che di applicazione, sono i livelli neurologici. Credo che sia un modello straordinario, pratico, intuitivo: le persone lo capiscono in venti minuti. Lo continueranno a capire per il resto della vita, ma già dopo venti minuti riescono a farci qualcosa. Così come utilizzo il metamodello. La PNL nasce lì storicamente, per me la “Struttura della magia” è un libro veramente magico in cui alla decima lettura puoi trovare cose nuove. Un po’ come un libro di Harry Potter in cui dentro si compongono frasi nuove e succede qualcosa di strano.
Questi due modelli sono un grosso riferimento. Poi non ho mai smesso di considerare il rapporto, quindi il ricalco, come le fondamenta su cui posso costruire tutto il resto. Se il metamodello è il trapano del dentista, il ricalco è l’anestetico.
Questi sono i modelli che abbiamo utilizzato di più.
Il modello che invece ho sempre poco utilizzato in azienda è quello dei sistemi rappresentazionali. Per lo meno non in termini di segnali d’accesso, di VAK, quanto magari nelle implicazioni linguistiche che portano poi ad ampliare la mappa, e le capacità percettive. Molto raramente sono andato in azienda a parlare di visivo, auditivo, cenestesico.
Qual è per te la differenza che fa la differenza tra la PNL ed altri modelli?
Innanzitutto i presupposti, anche se poi pure quelli non sono patrimonio esclusivo della PNL, ma sono in molti casi mutuati da altri approcci, persino dalla psicologia buddista.
Sono l’altra cosa che porto in azienda, prima di tutto. Credo che siano quelli la grande forza della PNL. La PNL potrebbe sopravvivere senza i suoi modelli, ma con i suoi presupposti, non viceversa.
Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti devastanti e deleteri del metamodello usato senza determinati presupposti. Ad esempio per penalizzare l’interlocutore.
Questa è la prima grande differenza: la flessibilità del modello, anche se a volte ve ne è poca in coloro che l’applicano. E anche la vastità dei modelli che vengono fatti rientrare sotto l’ombrello della PNL.
Per cui abbiamo una serie di modelli per ogni esigenza: i modelli neurologici permettono di mappare con più facilità; il metamodello di indagare e scavare; il ricalco di costruire il rapporto.
Ho riscontrato che la PNL risulta facilmente comprensibile se si parte dal secondo assioma di Watzlawick quello relativo a contenuto e relazione; su questi due filoni si possono inserire, sviluppare, capire meglio tutti gli altri modelli. Sono due aspetti fondamentali del vivere e a partire da essi è possibile capire moltissimi modelli e tecniche di PNL.
Fedro sta sviluppando da diversi anni il coaching. Come mai?
Avevamo una certa difficoltà a trovare una struttura portante per la PNL e per le sue tecniche. La PNL non possiede, com’è noto, una teoria della personalità. E se questo da una parte è un bene, dall’altra la lascia un pochino sospesa. Il coaching invece è un modello di intervento molto preciso all’interno del quale è possibile usare alcuni strumenti di PNL, forse non tutti, a meno che non si decida di abbandonare alcuni presupposti forti del coaching, però altri sì, e ciò avendo una struttura molto precisa che parte da un contratto e finisce con una celebrazione. E’ un setting. Il coaching dà un setting ed ha un’altra particolarità: è possibile usare la PNL facendo coaching, anzi è forse lo strumento più potente che un coach possa avere. Ma è anche possibile fare coaching senza utilizzare la PNL e avere comunque risultati straordinari. Quindi per noi è stato un modo per integrare la PNL e, allo stesso tempo, per discostarcene un po’.
Che tipo di progetto stai/state realizzando?
Due anni fa abbiamo iniziato a lavorare, e ci stiamo ancora lavorando, su alcuni metaprogrammi legati all’efficacia personale, al successo, se vogliamo usare una parola che non mi piace tantissimo, ma che comunque può rendere l’idea. Successo nel senso più lato del termine, di realizzare ciò che si desidera. Bateson diceva che il potere è la capacità di produrre dei risultati conformi alla volontà, la stessa cosa la diceva il mago Aleister Crowley. Un connubio di potere e magia. Fare della propria vita quello che si desidera farne. Siamo partiti dallo studio di ricerche fatte con alcune scolaresche (ne parlammo due anni fa in un seminario SIPNL) su dei metaprogrammi che riteniamo strettamente collegati alla realizzazione di un progetto: il controllo, la referenza, l’attenzione.
Quali sono stati nello specifico i risultati di questa ricerca?
Abbiamo riscontrato innanzitutto che esiste una supremazia di certi metaprogrammi su altri (e specifici posizionamenti sui vari segmenti) nel momento in cui ci dedichiamo alla realizzazione di un progetto; in particolare abbiamo notato la differenza che c’è tra un individuo che ha un forte controllo attivo rispetto a chi non l’ha. In questo caso abbiamo semplicemente verificato l’ipotesi di partenza.
Un’altra cosa che davamo per scontata era la supremazia della referenza interna in un leader, anche se di se stesso; in questo caso invece abbiamo rilevato un certo equilibrio tra referenza interna e referenza esterna. Ci ha incuriosito molto la capacità dell’individuo di bilanciare le proprie opinioni, le proprie valutazioni, le proprie decisioni, con quelle che arrivano dal mondo esterno mentre avevamo preso per scontato che un leader avesse una fortissima referenza interna.
Poi un buon bilanciamento tra obiettivi e processi. Anche lì avevamo presupposto una supremazia di obiettivi, e invece abbiamo trovato un bell’equilibrio: le persone che riescono a portare a termine dei progetti, soprattutto se non in team molto allargati, quindi con una forte incidenza del proprio lavoro, dimostrano equilibrio tra la capacità di prendere in considerazione e sviluppare obiettivi importanti e quella poi di definire i processi, le metodologie. Ora stiamo studiando, cosa abbastanza complessa, l’incidenza del chunking.
Accanto a tutto ciò abbiamo anche rilevato interessanti correlazioni tra i successi, in questo caso nello studio, e la presenza di strategie complete, semplici e ricorsive. Un elemento che ci riporta agli albori della PNL ed alle ipotesi contenute nel primo libro di Dilts e compagni.
Insieme a Laura Quintarelli e a Riccardo Santilli hai scritto due libri. Ne hai qualcun altro in programma?
No. O meglio, alcune delle considerazioni appena esposte le abbiamo riportate nel secondo libro che abbiamo realizzato. E aspettiamo di vedere che livello di interesse ci daranno le ricerche che stiamo facendo. Se sarà il caso scriveremo qualcos’altro.
Ci siamo resi conto che nel tempo necessario a scrivere un libro se ne possono leggere circa centocinquanta. Abbiamo pensato che la seconda cosa ci interessa per ora di più!
D’altra parte non riesco a scrivere dieci libri su un unico argomento, quando ne realizzo uno ci metto tutto me stesso, tutto quello che ho da dire. Poi vado in una sorta di letargo!
Negli USA stanno chiudendo molti centri di PNL. In Italia c’è un pullulare di nuovi centri e di piennellisti “inventati al momento”, la cui formazione, a volte, risulta nebulosa. Come leggi questa inversione di tendenza? E soprattutto quale sarà il futuro della PNL in Italia?
Se dovessi pensare ad uno scenario a lungo termine forse immaginereila PNL scomparire dai nomi delle società e delle aziende che la utilizzano. Forse non vedo più la scuola, l’istituto, la società di PNL, ma vedo la PNL utilizzata nelle sue applicazioni.
Non credo assolutamente che la PNL possa scomparire. Innanzitutto perché è sempre esistita e ciò che conosciamo è semplicemente una rielaborazione, un adattamento, una sintesi di tante altre cose; inoltre è talmente efficace ed ormai talmente diffusa che rimarrà.
Forse perderà, quello che credo sia successo negli Stati Uniti, l’impatto sul mercato. Ci si è dedicati per lungo tempo a fare marketing di PNL piuttosto che studiarla, capirla, svilupparla. Credo che questo costituisca una parabola che prima o poi entrerà, necessariamente, in fase discendente.
Forse il marketing della PNL sta subendo un colpo ed è possibile che continui a subirlo, non la PNL. Sulla PNL scommetterei sui prossimi decenni o secoli.
Secondo te la PNL dal punto di vista dei contenuti e delle tecniche potrà ancora avere un’evoluzione e che tipo di evoluzione?
Ti rispondo per come io la vivo. Parto dalla mia esperienza con un esempio. In aula ad un certo punto mi sono sentito chiedere dai partecipanti (e temevo che prima o poi me lo chiedessero perché era una domanda che anch’io mi ponevo da un po’ di tempo): “Noi che non siamo terapeuti che cosa stiamo facendo qui?”. Io ricordo di aver provato la stessa confusione durante i primi corsi. Ti rendi conto delle tante applicazioni, dell’interesse, del fascino. La PNL ha questo di unico: ti strega. Tuttavia ogni tanto vai in seconda posizione o in metaposizione e ti chiedi: “Ma io che sto facendo qui? Cosa sto imparando a fare?”
Da quel momento abbiamo dato una svolta all’organizzazione dei contenuti dei corsi. Ci siamo chiesti a cosa servisse trasversalmente la PNL e ci siamo risposti che serve a sviluppare la propria efficacia personale. Questo può interessare tutti, anche i non cultori della PNL: utilizzarla per diventare più efficaci nella vita.
Ci siamo anche chiesti su cosa si debba lavorare per diventare più efficaci e ci siamo risposti : “Sulla motivazione, sulla gestione dei propri stati, sul problem solving, sulla comunicazione”. E allora ci siamo chiesti quali fossero i modelli di PNL e le tecniche di PNL che dessero una risposta a queste aree di sviluppo. Credo che si possa ancora lavorare sulla PNL per renderla sempre più utilizzabile in queste aree, fuori da un contesto terapeutico dove la parola terapia richiama quella di patologia, pensandola sempre di più come uno strumento di benessere e di realizzazione personale o delle organizzazioni.
Ti faccio un altro esempio più specifico: l’uso del metamodello con un approccio di autoterapia. Il metamodello è secondo me uno degli strumento di autoterapia più potenti ed efficaci, richiede esclusivamente dedizione e volontà nello studiarlo e poi nell’applicarlo a se stessi. Sappiamo che applicarlo a se stessi è molto più doloroso e richiede più concentrazione che non applicarlo a qualcun altro, e mentre usarlo con qualcun altro dà un grosso senso di potere, contestare le nostre stesse violazioni spesso ci fa sentire un po’ limitati. Però di tutto ciò ho sentito parlare raramente.
Secondo me è un’area di lavoro enorme sulla quale prima o poi noi o qualcun altro si dedicherà, con più intensità e con più concentrazione. Le organizzazioni rispondono in maniera interessantissima a tutte le applicazioni della PNL.
Se vai in un’azienda e gli parli di PNL si chiudono, ma se vai a parlare delle possibilità di applicare alcuni modelli e fai capire come e con quali risultati, si aprono e ti accolgono.
Quindi credo che ci sia ancora molto da fare.
Grazie Bruno.